mercoledì 21 settembre 2022

La guerra in Ucraina e la filosofia cinese


La ferocia dell’aiuola. La Cina e la guerra

di Amina Crisma

(sinologa, insegna Filosofie dell’Asia Orientale, Uni. Bologna)


Riassunto: L’attuale posizione cinese dinanzi alla devastazione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin ha un suo specifico retroterra culturale: il confucianesimo.  


Secondo uno stereotipo diffuso, sapientemente alimentato dalla retorica imperiale dei governanti cinesi del passato e del presente, e caro a molti in Occidente, la Cina sarebbe per sua intrinseca natura “perennemente pacifica e armoniosa”; ma se è certamente vero, com’è ben noto, che la sua millenaria civiltà antepone la figura del funzionario-letterato a quella del guerriero, questo non implica affatto che vi sia assente la seconda: così, ad esempio, nella rappresentazione paradigmatica della regalità ascritta agli esempi offerti dai saggi sovrani antichi, le leggendarie virtù civili di re Wen della dinastia Zhou (1112-1050 a.C.) sono significativamente affiancate dal valore marziale di suo figlio Wu, trionfatore in battaglia sulla precedente dinastia Shang. Sin dai tempi più remoti nel paesaggio cinese è presente la tragica realtà di polemos, specie nelle modalità di sanguinose guerre civili il cui esito non di rado determina l’avvicendamento dinastico, ossia il mutamento del Mandato celeste (天命 Tiānmìng). 

Conflitti  violenti, efferati massacri, immani spargimenti di sangue sono parte integrante della storia della Cina, come è accaduto e accade altrove, ovunque sotto il cielo, in quest’aiuola che ci fa tanto feroci, per riprendere una pregnante espressione dantesca che innumerevoli volte si è rivelata e si rivela una veridica descrizione del mondo, a Oriente come a Occidente.  Essi ne sono il cuore di tenebra, la disarmonia alla quale si contrappone con forza un’apollinea istanza di armonia (quella religione della misura in cui Hegel acutamente riconosceva la cifra più caratteristica della civiltà cinese) che, lungi dall’essere una perpetua acquisizione, si è concretata in misure diverse e variabili nel corso di vicende che hanno visto alternarsi  fasi di ordine e di stabilità a fasi di cruento e selvaggio disordine.

Precisamente come energica reazione a una realtà conflittuale di feroce bellum omnium contra omnes si generano  nel pensiero cinese le istanze dell’armonia (和 hé) e della pace (和平 hépíng): esse sono vivide aspirazioni che emergono nell’epoca non casualmente detta degli Stati Combattenti (戰國 Zhànguó), fra il V e il III secolo a.C., nella quale dalla disgregazione  dell’ordine arcaico nascono possenti entità statali in mortale contesa fra loro, la cui lotta si conclude nel 221 a.C. con la fondazione dell’impero centralizzato ad opera del sovrano di Qin, e sorgono le grandi scuole di pensiero, le cui diverse ricette di governo sono accomunate dal grande ideale di costruire “la pace suprema di tutto quanto sta sotto il cielo” (天下 太平 Tianxia taiping).

Tutta l’età assiale in Cina si può leggere alla luce del drammatico confronto fra la realtà brutale della guerra e l’istanza insopprimibile della pace, fra il conflitto e la rinnovata armonia che si vuole costruire, e che consiste in un ordinamento del mondo conforme al senso dell’umanità e della giustizia (仁義 rényì), ossia  totalmente altro e diverso dallo spietato trionfo della sopraffazione.

Tale istanza insopprimibile, che risuona con forza in innumerevoli scritti dell’epoca, si esprime con speciale pregnanza nelle icastiche parole di Mencio (孟子 Mèngzǐ), il maggior discepolo di Confucio, vissuto nel IV secolo a.C., la cui intera opera è un appassionato (e inascoltato) appello ai re del suo tempo a desistere dalle reciproche aggressioni:

«Vi sarà pace nel Tianxia (天下, «ovunque sotto il cielo») quando i pastori d’uomini (i sovrani, i governanti) non saranno più avidi di massacri». 

“La pace muove dall’aspirazione più profonda del cuore umano”: così dichiara, riallacciandosi idealmente alle antiche parole di Mencio, l’accorato e vibrante appello per la pace di cinque autorevoli studiosi cinesi, docenti in prestigiosi atenei, apparso il 26 febbraio su Wechat (e subito prontamente oscurato  dalle autorità, ma non prima di aver fatto il giro del mondo) nel quale la ferma condanna dell’aggressione di Putin all’Ucraina e il rifiuto dell’uso della forza come mezzo di soluzione delle controversie si uniscono al deciso sostegno “a ogni azione compiuta dal popolo ucraino in difesa del proprio paese” e  all’empatica solidarietà con le sofferenze delle vittime del conflitto (“la ferita inferta all’Ucraina strazia anche noi tutti”) in cui si riconoscono proprie trascorse esperienze (“anche noi siamo stati in passato un paese devastato dalla guerra, abbiamo visto le nostre case distrutte e i nostri cari morire”). Anche su questo versante risuona intensa l’eco di motivi classici (l’insopportabilità della vista del dolore altrui è definita in intense pagine di Mencio un sentimento intimamente inerente all’essenza stessa della nostra umanità) ed ancora è ascrivibile a un tema classico di ascendenza menciana il riferimento all’esercizio della rimostranza (antica pratica, ampiamente attestata dalla tradizione confuciana, di denuncia della hybris del potere sovrano che si renda responsabile di comportamenti iniqui) di cui danno oggi coraggioso esempio i cittadini russi che manifestano contro la guerra. 

Ci si può chiedere – e non è affatto un interrogativo ozioso o retorico, dato che concerne le sorti dell’intera umana ecumene – come mai questo nobile appello per la pace, così profondamente consonante con lo spirito di universale fraternità e i dettami di benevolenza e di mansuetudine propri dell’umanesimo confuciano venga, come sopra s’è detto, censurato, in una Cina che si proclama pacifica, intenta a promuovere l’armonia universale, rispettosa dei confini degli stati sovrani, e la cui Grande Narrazione ufficiale ostenta fieramente la propria conclamata fedeltà a Confucio.  La cosa vieppiù stupisce in quanto essa aspira a un protagonismo sulla scena mondiale che appare di ordine morale e spirituale, oltre che materiale, economico e geopolitico: come mai, dunque, la sua leadership non coglie una così cospicua occasione per dimostrare nella realtà di essere una  superpotenza davvero dedita a coltivare la pacificazione globale di tutti sotto il cielo (天下 太平 Tianxia taiping), dato che ne avrebbe effettivamente la forza, e dunque ne porta appieno l’ineludibile responsabilità?  Francamente non riesco a comprenderlo, e lascio quindi ad altri, e al lettore, il compito  di cercare una risposta, limitandomi ad osservare che, a quanto pare, le posizioni pacifiste nella Repubblica Popolare Cinese vengono sistematicamente rese invisibili sulla rete, o vengono fatte oggetto di insulti e intimidazioni che inducono i loro promotori a cancellare essi stessi i propri messaggi, lasciando il campo soltanto alle esternazioni belliciste pro Putin. 

È in ogni caso istruttivo constatare quanto il linguaggio virulento di tali manifestazioni oggi dilaganti sul web sia dissonante rispetto al linguaggio antico, che mostra una generale propensione a condannare nettamente la guerra di aggressione, secondo un orientamento largamente condiviso che accomuna tendenze vivacemente rivali come la scuola confuciana e la scuola moista.  Quest’ultima, che trae il proprio nome dal fondatore, il maestro Mo (墨子, Mòzǐ, 479-381 a.C.), oltre a denunciare anch’essa la violenza rapace di “un mondo fatto di ladri e di banditi” e a deprecare “l’assenza di reciproco amore” come causa dei conflitti, si fa interprete di un pacifismo militante che accorre ovunque, in soccorso degli aggrediti, a sventare gli attacchi degli aggressori, come una sorta di ordine cavalleresco. Anche per Mozi, come per Mencio, e in genere per i pensatori d’ogni appartenenza dell’epoca degli Stati Combattenti, il ricorso alla forza in chiave difensiva è ritenuto pienamente legittimo, e lo è inoltre se il suo obiettivo non è la sopraffazione e la conquista, ma è quello di unificare il Tianxia e di far trionfare ovunque il senso dell’umanità e della giustizia: questa “guerra giusta” dovrebbe vedere comunque come protagonista, nella visione menciana, un sovrano ideale di elevata virtù, e perciò dotato di un carisma morale tale da attrarre a sé, con la sua esemplarità, tutte le genti. Anche in tale prospettiva, insomma, gli strumenti pacifici e pedagogici dell’esemplarità e della persuasione sono ritenuti sempre preferibili a quelli della guerra, benché questi ultimi in date circostanze, come s’è detto, non siano affatto esclusi.  

Rientra inoltre, per Mencio, nella casistica della legittima protezione e difesa di “tutti sotto il cielo” la deposizione del sovrano che si comporti da feroce tiranno attuata con la forza da parte di un sovrano virtuoso e benefico, della quale ha offerto un paradigmatico modello la detronizzazione dell’efferato re della dinastia Shang ad opera del buon re della dinastia Zhou già dianzi richiamata: in tal caso, egli afferma senza mezzi termini, “non si è compiuto un regicidio, bensì l’esecuzione di un criminale”. Un atto di giustizia, dunque, secondo la tradizione confuciana, che peraltro, a quanto ci narrano le cronache, finisce per essere, ai nostri occhi, in certa misura contaminato dalla hybris sanguinaria che vuole estirpare: il re vittorioso non si limita a uccidere lo sconfitto, ma massacra anche tutte le donne del suo gineceo, e ne espone su delle picche le teste mozzate (un episodio, questo, che nella sua memorabile crudeltà ci sembra affine alla strage delle ancelle compiuta da Ulisse dopo la sua vendetta sui Proci narrata nell’Odissea).     

Questa ulteriore dimensione della riflessione sulla guerra viene esplorata dal celeberrimo testo fondativo della tradizione taoista, il Laozi o Daodejing, Classico della Via e della Virtù, per il quale la violenza non si disarma opponendovi un’altra uguale e contraria, il che finirebbe per moltiplicarla, ma tramite il non agire (無爲 wuwei):

«Non cercare di primeggiare con le armi/perché primeggiare con le armi chiama risposta

Colui che agisce distruggerà/Colui che prende perderà/ Il Santo, non agendo su nulla, nulla distrugge/Non impadronendosi di nulla, nulla ha da perdere”   

Ma la “via dell’arrendevolezza” preconizzata dal Laozi paradossalmente diviene, a sua volta, una straordinariamente efficace arte della guerra, nella notoria strategia del “vincere cedendo” tematizzata dal Sun Tzu (Sunzi), famosissimo trattato del V-IV secolo a.C. che, invece del protagonismo del soggetto e del primato del volere e dell’agire caratteristici dei modelli occidentali, configura una flessibile adesione all’incessante processualità del reale. Non si ha certo qui un’astensione dalla volontà di potenza: si ha, invece, una sua traduzione in un’accorta capacità di mettere a frutto le potenzialità implicite nelle situazioni date.  

E non si asteneva certo dalla volontà di potenza il Primo Imperatore, della dinastia Qin, fondatore dell’impero attraverso un bagno di sangue in quella fatidica data del 221 a.C. già ricordata. La pace da lui edificata è l’esito della costruzione di uno stato forte, ferreamente disciplinato da una spietata disciplina autoritaria, e capace di imporsi sul campo di battaglia, secondo i dettami della "scuola della legge» ((法家 fǎjiā) a cui egli si ispira.  Confucianesimo e legismo verranno poi integrati e ibridati nella cultura ufficiale dell’impero Han (206 a.C.-220 d.C): ma le differenti declinazioni della riflessione sulla guerra e sulla pace, sulla mitezza e sulla forza emerse nel pensiero dell’età assiale che si è qui tentato sommariamente di evocare continueranno ad attraversare, con le loro istanze diverse, nella loro dialettica mutevole e nella loro tensione irriducibile, il paesaggio materiale e spirituale della Cina, fino ad oggi. 

° ° ° 

il testo è ripreso dal n. 355 (n.2, 2022, pp. 27-30) della rivista “I Martedì”: 

Parole di guerra, parole di Pace

Casa editrice Persiani, Bologna   -   www.rivistaimartedi.it

 [L'articolo su I Martedì dispone di 14 note a pié dì di pagina]


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